In questi giorni di ordinanze da Coronavirus abbiamo avuto modo di pensare e di ripensare a modelli, stili e abitudini di vita, conoscendo un po' di più anche gli anfratti invisibilizzati e negati dei nostri equilibri precari e delle nostre fragili certezze.

Chi ha voluto e potuto lasciarsi andare a una riflessione sul proprio quotidiano avrà sicuramente avuto modo di guardare in faccia le tante storture e adattamenti obbligati in cui siamo costretti da un'organizzazione del lavoro che non sempre fa bene alla nostra vita privata e al nostro benessere.

Approcci comunicativi non sempre coerenti e spesso contraddittori non ci hanno permesso di avere uno sguardo razionale a questa emergenza. Insomma, il solito cortocircuito a cui la politica e non solo ci hanno abituato, polarizzando ogni tema, fenomeno e dibattito, senza mai ottenere dei buoni risultati in termini di corretta percezione. Nemmeno le voci del mondo scientifico hanno fatto breccia con efficacia, riuscendo a farci ragionare sulla necessità di determinate misure di contenimento della diffusione del virus.

Che poi tra un “non fermiamoci” e un interesse prioritario alla tutela della salute collettiva ci siamo un po' persi e scontrati, senza riuscire a mettere in atto una regola fondamentale, ovvero che non esiste alcun diritto se prima non viene garantito e tutelato il diritto alla salute.

Quindi con qualche temporanea rinuncia a livello personale dovremmo aver compreso e accettato di buon grado quanto positive potrebbero essere le ricadute per una dimensione, quella collettiva, spesso trascurata, snobbata, negata.

Abbiamo ampiamente dimostrato che non siamo in grado di abbracciare questa importante e basilare linea di comportamento.
Al posto del lamento dei profitti e del lavoro perso, avrei preferito leggere più pensieri legati a una presa di consapevolezza delle cose realmente importanti.

Per questo parto dalla mia dimensione personale e desidero condividere con voi un pezzo di queste giornate da pseudo “quarantena”, con un post che ho scritto il 24 febbraio sul mio profilo Facebook:

“Mia figlia che si sveglia canticchiando... rallentiamo, prendiamoci questi momenti di "pausa" per ricaricarci e recuperare un po' di buon umore, che non esistono solo i dané (li terrése) e gli aperitivi, che se non andate al ristorante o al cinema o non fate il weekend fuori porta vi sentite male, ma esistono le coccole, le letture a quattrocchi, gli abbracci, i tempi lenti, tornare a parlare in famiglia, che quando sono a scuola 40 ore la settimana (come se fossero lavoratori full time) e tornano tramortiti, non c'è la serenità né il tempo per farlo. (...) Che magari iniziamo a capire come meglio riorganizzare anche il lavoro e capiamo che lo smart working forse migliora la qualità della vita. Che tanto la produttività non va di pari passo con il tempo impiegato a scaldare la sedia. Che pensare che più tempo a scuola non sempre corrisponde a una formazione di qualità.”

 

Coronavirus. La lotta per i diritti in tempi di emergenza

Cosa sono per me questi giorni di pausa, in cui gran parte delle cose che avevo pianificato e programmato sono saltate?
Sono essenzialmente tempo per riflettere su tanti piccoli grandi aspetti della mia vita, che già di suo ha subito negli anni numerosi cambiamenti, stravolgimenti, riadattamenti continui, tanto che forse mi sono abituata all'idea del non poter controllare tutto e che nulla è immutabile.

Sin dai tempi dell'università ho adottato una sorta di flessibilità, di adattamento continuo a seconda delle materie da studiare. Cosa che mi è servita poi nel mondo del lavoro e nella mia multiforme capacità di adattamento. Sono un po' camaleontica per necessità e ogni passaggio è stato frutto di una scelta tortuosa, complessa, a volte obbligata, ma alla fine ho sempre cercato di ripristinare un equilibrio, consapevole di quanto fosse comunque precario. I momenti in cui sbuffi, ti lamenti, ti opponi ci sono, ma poi in qualche modo occorre trovare una soluzione che riusciamo più o meno a indossare senza troppi fastidi. Che se ci strizziamo per farci rientrare in un vestito “troppo stretto” di vita e lavorativo non va affatto bene.

In questi tempi è emerso ancora una volta come il carico di cura sia tuttora assai sbilanciato e a carico delle donne. La chiusura delle scuole, necessaria e ineludibile, ha creato non pochi problemi di gestione e di conciliazione, come d'altronde accade in caso di malattia dei figli o di scuola chiusa per vacanze. Chi non ha i nonni o entrate sufficienti per una tata si è trovata di fronte ai consueti problemi, eppure se ci pensiamo, sono gli stessi di prima, allorquando la scuola non può essere la soluzione ad ogni problema di conciliazione. Qualcuno, come il Moige, ha provato a proporre qualche richiesta (che va bene, a patto che i permessi non siano ad esclusivo carico delle madri).

Il non poterci permettere interruzioni, che non fa rima solo con il precariato o con contratti strambi o col lavoro autonomo: questo è il nocciolo del problema. Pensare che noi coincidiamo e siamo il nostro lavoro, un altro pezzo del problema.

Pensare che il nostro valore e la nostra priorità sia il nostro lavoro e quanto ci rende. Quando c'è un valore negato a tante attività “gratuite”, di cura, di solidarietà, di sostegno sociale, che sono invisibili ma vanno a creare valore, colmare i vuoti, permettere che l'economia visibile possa mantenersi in piedi.

Il richiamo e l'invito allo smartworking in questi giorni si è fatto necessità, per cause di forza maggiore oggi si scoprono modalità di organizzazione del lavoro alternative, spesso mal digerite da tanti vertici aziendali che preferiscono vedere il gregge a sformare le sedie piuttosto che riorganizzare il lavoro.

In questi giorni anche l'aria e l'ambiente hanno tratto benefici.
Ristrutturare i modelli non solo in concomitanza di emergenze, ma sulla base di un intelligente sviluppo che tenga al centro il benessere del lavoratore o della lavoratrice, la sostenibilità di certi modelli di sviluppo e di produzione di ricchezza. Senza dimenticare che di strumenti di conciliazione dovrebbero aver bisogno anche gli uomini. Insomma, le resistenze a ripensare i modelli lavorativi vengono meno solo se non se ne può fare a meno.

Ma non si tratta solo di smartworking e di flessibilità, perché ahimé quando conviene al datore di lavoro, la reperibilità e la disponibilità h24 in remoto, da casa, la esigono e la pretendono. E qui alcuni nodi del “lavoro intelligente” vengono inevitabilmente al pettine.
In questo articolo pubblicato su InGenere nel 2017, si parlava esattamente di questo e dei rischi connessi a un certo abuso delle nuove prassi del lavoro agile 

Perché come al solito le soluzioni senza regole e tutele rischiano di peggiorare le cose. Quindi in assenza di meccanismi che limitino il fenomeno della connessione continua dei lavoratori, è probabile che si creino abusi e che si pretendano prestazioni lavorative al di fuori di qualsiasi regola.

I diritti quindi rischiano di affievolirsi e i confini tra lavoro e vita privata finiscono per assottigliarsi, con un'invasione preponderante e sgradita del primo.
Quanto poi sia possibile per tutti condurre nel medesimo ambiente domestico lavoro e compiti di cura, quanto questo non rappresenti un notevole sovraccarico di impegno, quanto i risultati siano davvero a benefici, quanto poi questo sia un ulteriore elemento di segregazione di genere, quanto poi certe soluzioni smart siano fruibili esclusivamente da alcune professioni: sono i tanti interrogativi che attendono risposte.

È come voler cambiare tutto, ma nascondere i problemi sotto il tappeto, lasciando i compiti di cura ancora per la maggior parte sulle spalle delle donne. Quindi, stiamo attenti che telelavoro e smartworking non diventino forme di ulteriore oppressione di genere, esasperando e allargando le disuguaglianze.

Cerchiamo di non dare per “buone” in assoluto forme di conciliazione tra lavoro produttivo e riproduttivo, che poi anche quello riproduttivo produce di per sé welfare e quindi valore.
Domandiamoci come redistribuire i compiti di cura, di figli, di anziani, di persone non autosufficienti, senza che si attuino nuove forme di sovraccarico per le donne, a vantaggio ancora una volta del profitto e delle aziende.

Non diamo nulla per scontato, anche se da sempre il lavoro invisibile di cura lo è.

C'è chi poi rileva che se i tempi dello smartworking si allungano e diventa qualcosa di “obbligato” si rischia di “far calare la motivazione e produttività”. Ma in un contesto in cui non c'è una strutturazione reale di queste nuove modalità, in cui non c'è una rivoluzione dell'organizzazione aziendale compatibile con lo smartworking chiaramente la sua applicazione diventa sghemba. Lo stesso vale per forme improvvisate di “smart schooling”, che possono entrare in conflitto con il lavoro da casa.

Eppure, ciascuna/o di noi ha le risorse per trarre il meglio da questa situazione straordinaria, perché possiamo e dobbiamo fare tutti la nostra parte, nulla vale più della salute.

Anche i nostri figli impareranno da questi giorni a organizzare un nuovo metodo di studio, sosteniamo il loro desiderio di autonomia, incoraggiamo la loro voglia di fare da soli e di riuscire a farlo, anche questo serve, esattamente come quando si arriva all'università e occorre adottare nuovi stratagemmi e tabelle di marcia per arrivare preparati all'esame. Abbiate fiducia e date fiducia.

Ancora una volta ci ritroviamo nella crisi ad affrontare le muraglie di un sistema che non è assolutamente a misura di donna, che però chiede sacrifici e piena disponibilità proprio a noi. Ma questo lo sappiamo bene. Anni di letteratura femminista lo hanno svelato.

Vi invito a leggere cosa scrive Lea Melandri sul Riformista, partendo dal tema di una nuova legge elettorale e allargando lo sguardo in modo lucidissimo

 

Non mancano le norme in Italia in materia di parità uomo-donna nel mondo del lavoro.

Eppure, è sempre una questione di punto di vista e di partenza, di un sistema che non vuole ripensare radicalmente i ruoli, il potere, le gerarchie e le aspettative legate al genere. Turba le menti dei più pensare che gran parte delle soluzioni, delle regole, degli impianti si fondino tuttora su una cultura e su un sistema patriarcale.

Crea molti problemi anche tra le donne, che in gran parte non ne hanno ancora piena consapevolezza, che i diritti sono ancora parziali, che sono briciole, contentini per continuare a replicare modelli di produzione, rapporti tra i sessi, consuetudini e carichi dati per scontati.

Quella costruzione dell'art. 37 rappresenta appieno il perimetro entro il quale a noi donne è concesso muoverci, siamo pari sulla Carta, ma evidentemente impari nei fatti, nella realtà, se poi quotidianamente è da noi che ci si aspetta un doppio carico “naturale”.

In questa “attesa” ci siamo crogiolate e abbiamo acconsentito ai voli pindarici in cui ci siamo costrette, pur di restare anche nel mondo del lavoro produttivo. Ed insieme ai nostri voli pindarici abbiamo chiesto anche ai nostri figli di seguirci.

Una crisi sanitaria come quella dettata dal coronavirus, con soluzioni emergenziali, spesso a pezzi, con chiusure non diffuse e omogenee come è accaduto in Cina, hanno solo fatto emergere la precarietà di un equilibrio che tuttora si regge sulla capacità delle donne di “farsi carico”, di stringere i denti, di adattarsi, di contenere qualsiasi contraccolpo. Così il sacrificio è un po' meno collettivo, e assai sbilanciato, ancora una volta.

Paghiamo molto in quanto donne, ma questo sempre, non solo in situazioni di emergenza. Se solo fossimo tutte unite e in grado di accorgercene in tempi “normali”, potremmo iniziare a ragionare finalmente in modo nuovo.

Ancora una volta, l'invito è di uscire dal proprio privato e allargare lo sguardo, smettendo innanzitutto di abbracciare col sorriso qualsiasi  espressione di un modello di sfruttamento capitalistico. Libertà non fa rima con liberismo, profitto, egoismo.
Che per soddisfare le esigenze del mercato del lavoro "locomotiva che mai si ferma" abbiamo dovuto accettare di tutto.

Riscopriamo il valore della solidarietà, tra generazioni, tra vicini, dell'empatia, del saper considerare anche il punto di vista e la situazione di chi è più fragile ma ha pari diritti, non meno come qualcuno suggerisce, il bello di rallentare e confrontarci con le cose veramente importanti, il senso di collettività e di collaborazione per un benessere diffuso e condiviso.

Da questa emergenza ne usciremo sicuramente, ma mi auguro un po' diversi, un po' migliori, soprattutto più consapevoli.

Intanto, buon 8 marzo: quest'anno la lotta la possiamo esercitare con la riflessione e attuando piccoli ma significativi cambiamenti, ricalibrando i nostri obiettivi e mettendo a fuoco tanti piccoli tasselli che continuano ad allargare le discriminazioni di genere e a ridimensionare beni comuni preziosi come un Servizio sanitario nazionale pubblico e universale.

 

Ritratto di Simona Sforza

Posted by Simona Sforza

Blogger, femminista e attivista politica. Pugliese trapiantata al nord. Felicemente mamma e moglie. Laureata in scienze politiche, con tesi in filosofia politica. La scrittura e le parole sono sempre state la sua passione: si occupa principalmente di questioni di genere, con particolare attenzione alle tematiche del lavoro, della salute e dei diritti.